Ero al liceo quando lessi per la prima volta Dialogo della moda e della morte, Leopardi, Operette Morali. A dire il vero, al di là della piacevolezza della lettura capii solo in seguito che, in effetti, il dialogo di Leopardi era, già da allora, uno specchio dei tempi moderni e oggi più che mai attuale, in cui i modelli consumistici, e quindi la moda, stanno distruggendo il genere umano, sempre più velocemente, da qui, per il grande poeta, la “sorellanza” della morte con la moda.
Fu poi la volta di Pier Paolo Pasolini che, forse più di ogni altro intellettuale dei suoi tempi, si rese conto dell’azione distruttiva del consumismo sfrenato sull’uomo e sull’ambiente, con la fine della società contadina. Per lui il “vero fascismo” della modernità è la civiltà dei consumi con la sua capacità di distruggere l’ambiente esteriore e contemporaneamente i valori delle persone.
Vorremmo poter dire che la sua profezia non si è avverata…
Quasi contemporaneamente Goffredo Parise scriveva Il rimedio è la povertà, affermando: “Noi non consumiamo soltanto, in modo ossessivo: noi ci comportiamo come degli affamati nevrotici che si gettano sul cibo (i consumi) in modo nauseante. Le botteghe di stracci (abbigliamento) rigurgitano, se la benzina aumentasse fino a mille lire tutti la comprerebbero ugualmente. Si farebbero scioperi per poter pagare la benzina. Tutti i nostri ideali sembrano concentrati nell’acquisto insensato di oggetti e di cibo. Si parla già di accaparrare cibo e vestiti. Questo è oggi la nostra ideologia. E ora veniamo alla povertà. e...” e continuava invitando a ritornare ad una vita sobria e pensata, solo così, diceva, può esserci la salvezza: “…è assaporare (non semplicemente ingurgitare in modo nevroticamente obbediente) un cibo: il pane, l’olio, il pomodoro, la pasta, il vino, che sono i prodotti del nostro paese; imparando a conoscere questi prodotti si impara anche a distinguere gli imbrogli e a protestare, a rifiutare….”.
Vorremmo poter dire che anche lui si era sbagliato.
E quanti altri…
Ricordiamo, a proposito, anche il grande poeta veneto, Andrea Zanzotto, che spese gli anni finali della sua vita a difendere con i suoi scritti la terra dalle speculazioni e l’agricoltura dalla cementificazione: “Dopo i campi di sterminio, stiamo assistendo allo sterminio dei campi“, era solito dire.
E non dimentichiamo l’opera di Maurizio Pallante, il quale nei suoi scritti ricorda che la nostra terra non è merce da sfruttare e sacrificare alla legge della crescita in un mondo che confonde i beni dalle merci senza considerare l’eredità che viene lasciata alla generazioni future. Egli si chiede come può “…Essere felice un essere umano che non ha tempo da dedicare alle proprie esigenze relazionali, affettive, cognitive, creative, perché è costretto a dedicare tutte le proprie energie a un lavoro svolto in cambio di una remunerazione in denaro che gli consente di compensare le proprie frustazioni con l’acquisto di cose?…”.
E mi viene in mente Salvatore Settis che nel libro “Se Venezia muore”, più che mai profeta dopo il recente disastro dell’acqua alta nella città lagunare, afferma che “quando la città perde la memoria di sé muore, poiché la città degli uomini o a misura d’uomo ha ceduto il passo a una macchina produttiva di merci e di consumi … è stata considerata solamente la crescita economica in una logica d’impresa, innescando un processo autodistruttivo che investe ogni aspetto della vita delle persone…”.
E ho citato solamente alcuni autori italiani. E potrei continuare…
Un po’ sconfortata mi chiedo quanto e per quanto tempo ancora bisognerà scrivere per contribuire a creare un clima culturale che inverta la tendenza autodistruttiva che ha investito la terra in modo forse irreversibile.