Perché sono contraria all’elemosina

Ho sempre provato disagio nell’elargire l’elemosina, trovando umiliante per me che versavo la moneta nella mano tesa e per chi la riceveva, poiché era costretto a chiedere per sopravvivere. Fin da piccola, ho sempre ritenuto incivile un Paese che permette e tollera, senza vergognarsene, persone che chiedono la carità per strada. Mio malgrado compievo nel disagio il gesto odiato, pur intuendo che ero ben lontana dall’aiutare la persona che mi stava di fronte. A volte scambiavo qualche parola per conoscere la realtà dell’individuo che trovavo improvvisamente svoltando una stradina della mia città o al semaforo o davanti al negozio o al supermercato, consegnandogli l’elemosina. Rimanevo imbarazzata innanzi alla mano aperta che afferrava le briciole della mia esistenza e farfugliavo tra me:”Non può essere questo il modo di aiutarli”, lungi ancora dal soffermarmi ad analizzare tale situazione.

Certo intuivo la spaccatura: da una parte io e quelli come me che innanzi al questuante aprivano, nel migliore dei casi, la borsa, estraevano il borsellino e gli elargivano l’ obolo e, con quello, pensavano di lasciarsi dietro le spalle le emozioni negative, convinti di aver dato il loro contributo alla risoluzione del problema della miseria del mondo.

Dall’altra una miriade di uomini, donne, bambini con la loro indigenza e il loro fardello di sentimenti che osservava il benessere, spesso solo apparente, della gente del Paese che li ospitava. Credo sia un grosso errore, comunque, ritenere che i questuanti possano osservare con indifferenza il lusso che li circonda.

A un certo punto ho iniziato a guardare negli occhi quelli che ricevevano l’elemosina per strada. Non riuscivo a intravedere nel loro sguardo gratitudine autentica, come sembrerebbe naturale essere. No. Notavo, invece, un atteggiamento che fingeva esageratamente ma ambiguamente una melliflua riconoscenza o rabbia a stento trattenuta oppure disprezzo se non addirittura odio verso di me che, evidentemente, apparivo falsamente benefattrice, poiché lì, per strada, potevo permettermi di umiliare elargendo frammenti della mia civiltà a loro, costretti a chiedere e ad accettare passivi ma rifiutando, anche se solo con gli occhi, qualsiasi asservimento.

Qualcuno, a volte, soprattutto tra i giovani, si allontanava scontento o andava via senza ringraziare, come avesse ricevuto offesa dal mio gesto, lasciandomi in imbarazzo e con sensi di colpa che, inizialmente non riuscivo a decifrare.

Ho potuto riflettere, in realtà, osservando la gente per strada, che il dono in elemosina è uno sfizio che ci togliamo quando ci va e che non è un vero sacrificio per chi lo fa. Non sono riuscita, quindi, a scorgere niente di filantropico o attribuibile alla misericordia nell’atto della questua.

Ho recentemente avuto modo di osservare, in una ricca cittadina vicino la mia città, un fatto che avvalora ciò che sto scrivendo. Una coppia elegantemente vestita attraversava il centro storico quando ha incontrato per strada un poveraccio che sicuramente stonava con la cura e l’eleganza del posto. L’uomo si è fermato, sorridendo alla moglie, ha estratto dalla tasca una moneta e, con atteggiamento di chi vuole apparire buono e generoso, l’ha gettato nel cappello del mendicante. Ha preso, quindi, sottobraccio la donna e assieme sono entrati soddisfatti nel ristorante lì vicino.

Questo è solo un esempio.

Ma dove sta il valore etico della moneta data in dono con l’elemosina?

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Caterina Condoluci

Caterina Condoluci vive da oltre trent’anni nel Veneto, dove ha esercitato per lungo tempo la professione di docente di italiano e storia. Appassionata d’arte e di letteratura, attualmente si dedica alla scrittura come testimonianza di vita.

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