Si può guardare al passato per realizzare nel presente una società egualitaria?

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Terenzio Del Grosso presenta “Le Trame della Grande Dea” Libreria Lovat, 2015

 Desidero proporre  i testi di un incontro per l’8 marzo da me coordinato alla LIBRERIA LOVAT di Villorba (TV), che, gentilmente, i vari relatori mi hanno consegnato e che ritengo sempre attuali.

Mi sono già soffermata sull’intervento dell’architetta Monica Carmen, redattrice di Bioarchitettura di Bolzano e su quello dell’avvocata Zeila Gola.

 

Qui di seguito l’intervento di Terenzio Del Grosso

                          

La Grande Dea

Una comunità basata sull’uguaglianza sociale dei sessi, come auspicio di una società egualitaria
Sicuramente l’ambito predominante e primario della diversità umana è quello dei sessi che nel corso della storia è divenuto motivo discriminante ed elemento propulsore di sistemi politico sociali gerarchizzati e subordinanti proprio a cominciare dal ruolo sociale attribuito alla donna. Sembra poi che nel pensiero comune, anche delle giovani generazioni, la condizione subalterna della donna rispetto all’uomo sia un dato di fatto storico e che salvo rare eccezioni sia stato l’elemento fondante delle relazioni sociali sin dai primordi. Per tal motivo spesso si pensa che sia ineluttabile e per certi versi naturale che la donna si occupi di questioni domestiche e dell’accudimento dei figli, senza dover preoccuparsi e partecipare in modo attivo all’organizzazione politica di una società. È emblematico il fatto che perfino la tanto osannata Rivoluzione Francese, fondata sui principi del cosmopolitismo, della libertà e dell’uguaglianza e che propugnava pertanto i diritti dell’uomo e del cittadino, abbia poi fatto condurre alla ghigliottina Olympe de Gouge (1748-93) poiché risultavano scomode le sue petizioni per l’abolizione della schiavitù e il raggiungimento dell’uguaglianza tra uomini e donne; per di più tale esecuzione fu motivata dal principio secondo il quel le donne erano “naturalmente” portate a occuparsi delle faccende familiari più che di questioni politiche. Per sfatare tale pregiudizio, sempre nell’epoca dei “Lumi”, Mary Godwin Wollstonecraft scrisse un saggio fondamentale nel 1791 intitolato “Rivendicazione dei diritti della donna” sostenendo che le donne non sono inferiori per natura agli uomini, anche se la diversa educazione a loro riservata nella società le pone in una condizione di inferiorità e di subordinazione. Ma è proprio vero che il modello socio-culturale che presuppone la subalternità della donna è sempre stato alla base dell’organizzazione delle relazioni sociali sin dai primordi? Evidentemente no e tale affermazione è suffragata dalle sempre più diffuse ricerche, prevalentemente in ambito archeologico, che testimoniano l’esistenza sin dal periodo protostorico (VI millennio a.C.) di società, definite dall’archeomitologa Marija Gimbutas dell’”Antica Europa”, in cui fiorivano le arti e in cui, benché esistenti, le differenze di status e di ricchezza non erano eccessive. Dagli scavi sono emersi indizi sul fatto che queste società non erano dominate dai maschi e le donne svolgevano il ruolo di sacerdotesse nonché artigiane; le immagini religiose rinvenute hanno un aspetto antropomorfico e perlopiù femminile. Marija Gimbutas sostiene che nell’Europa Antica, prima di essere percorsa dalle orde indoeuropee tra il 4.300 e il 2.800 a.C., la femmina era vista come “creativa e attiva” e né la femmina né il maschio erano “subordinati l’una all’altro”.

Pertanto nell’Antica Europa, comprendente il Sud Italia, l’area dei Balcani, la Grecia, Creta e l’Anatolia, esistevano società che, contrariamente alla nostra comune visione della storia che sembra aver avuto come motore processuale la violenza, sono state generalmente più pacifiche di quelle che sarebbero sorte dopo le invasioni dei popoli indoeuropei, poiché nelle rilevazioni archeologiche sono scarse o nulle le fortificazioni e i segni di distruzioni provocati dalla guerra. Questo dato si riflette anche nelle loro simbologia, visto che nella loro arte è assente la glorificazione dei guerrieri e della guerra, mentre è molto presente il culto del principio femmineo della forza generatrice e rigeneratrice. Tale culto è pressoché pervasivo in tutta l’area del sud-est europeo ed affonda le sue radici su una concezione della spiritualità imperniata sul potere della natura e nello specifico sulla ciclicità climatico-vegetativa e della vita sia umana, sia animale. In tale prospettiva si pose sin dal Paleolitico il culto del femmineo impersonato dalla Grande Dea, simbolo della fecondità e, in senso lato, utero universale. Le statuette-idolo di questo periodo (~ 30.000 anni fa) rinvenute in diversi luoghi dell’Europa, le cosiddette steatopigi, riconducono ad una medesima matrice stilistica, caratterizzata dall’accentuazione delle natiche, del seno e della vulva, che costituiscono un’esplicita conseguenza dell’osservazione del corpo femminile nella mutazione in concomitanza della sua potenzialità e funzionalità riproduttiva. Col passaggio dal Paleolitico al Neolitico, ed in modo particolare alla fase della scoperta dell’agricoltura, la rappresentazione della Grande Madre assume aspetti diversi per cui l’attenzione non è più rivolta al concetto di fecondità, bensì a quello di maternità. Ora le linee arrotondate delle dee madri esprimono il senso della gravidanza, spostando l’attenzione dalla funzione procreatrice al prodotto della fertilità, il figlio. È in questo momento che il ruolo della donna diviene fondamentale nell’organizzazione sociale visto che ha ormai consolidato le proprie conoscenze e abilità nell’ambito dell’agricoltura, della tessitura, della ceramica e anche di una forma di proto scrittura che aveva maturato nella fase paleolitica, divenendo sacerdotessa e custode privilegiata del culto della Grande Dea. In ogni caso il principale tema del simbolismo della Dea è il mistero della nascita, morte e rigenerazione, sia del mono animale sia di quello vegetale. Nella Dea si venerava il concetto di propulsione vitale, divenendo la scaturigine della vita che assumeva la sua energia dalle forze intestine della terra, dalla luce, dalla pioggia e dalle sorgenti. Tutti questi elementi costituiscono un sistema simbolico innestato in un mitico tempo ciclico, rappresentato per astrazione da segni di movimento dinamico: spirali rotanti e intrecciate, serpenti sinuosi e spiraliformi, cerchi, mezzelune, corna. Marija Gimbutas e una delle sue migliori allieve Riane Eisler, hanno qualificato le società neolitiche che praticavano il culto della Dea come una gilania (gy da gynè, “donna”, an da aner, “uomo”, e la lettera “L” in mezzo come legame tra le due metà dell’umanità), ovvero come una struttura sociale in cui c’era l’uguaglianza tra i sessi che compartecipavano alla dinamica del flusso vitale percepito nelle forze della natura. Era un sistema sociale equilibrato, né patriarcale, né matriarcale, che perdurò dal VII millennio a.C. sino alla caduta del regno minoico nel II millennio a.C. E’ difficile pensare che possa esser esistito un mondo diverso, a tal punto da voler etichettare il modello sociale calibrato sul culto di divinità femminili come “matriarcato”, riproducendo così la logica di una società dominatrice in contrapposizione ad un modello androcratico; ma così non è perché nell’Antica Europa esisteva un modello sociale mutuale dove il concetto di diversità sessuale non significava né inferiorità, né superioreità. Molte volte nella storia si sono verificati tentativi di far riemergere il modello di una società gilanica ma spesso il sistema androcratico li ha riassorbiti. Ciò nonostante i simboli della Dea come Madre che dispensa la vita sono sopravvissuti fino ai giorni nostri. Rian Eisler ravvisa persino una continuità dal profondo respiro storico nella divinità cinese Kuan Yin che risulta venerata come dea benigna e compassionevole, giungendo a ravvisare la medesima continuità con il culto di Maria nell’area cristiana. Non è poi del tutto casuale il fatto che un crescente numero di donne e uomini si impegnino per la pace, l’ambiente, la giustizia e l’uguaglianza sociale. Nel concetto di gilania è insito il rispetto dell’autonomia, della differenza e dell’uguaglianza di status tra i sessi oltre a essere valorizzata l’interpolarità identitaria. Il fatto che possa essere esistita una tale organizzazione socio-culturale fa ben sperare che non si possa o si debba per forza credere che la guerra in senso lato e la guerra tra i sessi siano connaturate all’essere umano ma che si possa recuperare la diversità come risorsa per uno scambio ed integrazione reciproca nell’ottica di una spiritualità volta al rispetto della vita e della terra che ne è espressione e madre. La visione del mondo è direttamente collegata alla dimensione spirituale dell’essere umano e nelle società gilaniche l’homo spiritualis non è ancora stato fagocitato dall’homo faber, ovvero le relazioni sociali sono governate da un senso di appartenenza al processo naturale della celebrazione della vita. La condizione esistenziale nelle società mutuali collima con il flusso energetico della natura che si pone come garante di una continuità e come tale viene rispettata; in tale prospettiva vanno interpretati i simboli correlati al culto della Dea che indicano in generale il movimento, come un serpente, una spirale o un vortice dove una forma si dissolve dentro un’altra. “La trasformazione da umano in animale, da serpente in albero, da utero in pesce, rana, porcospino e bucranio e da bucranio in farfalla era la percezione dell’energia vitale che riemerge in un’altra forma.” afferma Marija Gimbutas. Si delinea in tal modo una spiritualità il cui archetipo è la dinamicità nella compenetrazione degli opposti che trasposti nel sistema sociale definiscono emblematicamente l’interazione fluida e ciclica dei rapporti tra le diversità senza che ci sia una prevaricazione preordinante di una sull’altra.
Purtroppo tale dimensione di equilibrio costantemente ridefinito nel processo ciclico delle dinamiche sociali è stato interrotto dalla comparsa di invasori che nel loro sistema sociale valorizzavano il potere che toglie la vita in contrapposizione a quello che la dà e la fa fluire. Il mondo dell’Antica Europa si trovò nel IV millennio a.C. a di fronte ad una cesura epocale per cui il suo modello sociale, da lungo tempo consolidato, imboccò un percorso involutivo tale da determinare nel II millennio a.C. la rottura dell’equilibrio e l’avvento del caos alimentato da popolazioni come quella dei Kurgan a nord del Caucaso, che avevano una visione mitologica imperniata sulla celebrazione di dèi guerrieri e sulla esaltazione della spada affilata. Ora, come all’epoca dell’invasione Kurgan quando l’Europa Antica si è trovata ad affrontare un bivio, dopo circa 5.000 anni di predominio andocratico, ci troviamo al giro di boa per cui potremmo recuperare un processo evolutivo che presuppone non la linearità storica ma l’inversione di tendenza, riabbracciando l’antico modello sociale gilanico caratterizzato dal concetto di mutualità. Solo stimolando il recupero della memoria storica di un’epoca felice in cui trionfava il culto della vita sostenuto dalla cooperazione e dal concetto di potere come unione e responsabilità, si potrà far risorgere quella dimensione sociale di rispetto e valorizzazione reciproca che ci permetterà di essere nuovamente accolti tra le rassicuranti braccia della Dea Madre.
Riferimenti bibliografici essenziali:

Del Grosso Terenzio Le trame della Grande Dea.
Simbolismo arcaico nei manufatti tessili tribali del vicino Oriente. Marchi editore, Treviso 1993 Eisler Riane
Il calice e la spada. La civiltà della grande dea dal neolitico ad oggi. Forum Edizioni, Udine, 2011
Gimbutas Marija, Il linguaggio della Dea Edizioni Venexia, Roma, 2008 Gimbutas Marija Kurgan.
Le origini della cultura europea, Edizioni Medusa, Milano, 2010
Totaro Francesco, Non di solo lavoro, Ontologia della persona ed etica del lavoro nel passaggio di civiltà. Editore: Vita e pensiero, Milano, 1999
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Caterina Condoluci

Caterina Condoluci vive da oltre trent’anni nel Veneto, dove ha esercitato per lungo tempo la professione di docente di italiano e storia. Appassionata d’arte e di letteratura, attualmente si dedica alla scrittura come testimonianza di vita.

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